(con la collaborazione di Chiara Del Re)
Zzuccuru e ccafé:
la vita cusì è.
Povera e semplice ma di formidabili sapori. Priva di mezzi ma allo stesso tempo ricca. E genuina. Tipica del Mediterraneo, e valorizzata dalle qualità del mare e della terra. Con gustosità decise ma anche delicate. Sostenuta, avvantaggiata, sedotta dal suo superbo olio d’oliva, la cucina salentina è davvero povera per gli ingredienti usati, a partire dalle farine poco raffinate: la farina d’orzo per esempio, meno costosa di quella di grano. Per l’uso di verdure coltivate e selvatiche – che si trovano anche a Le Sciare, in pineta, insieme ad ottimi funghi, in autunno – e di altri prodotti della terra. Per l’impiego di pesce azzurro, oggi anche altrove rivalutato ma un tempo l’unico pesce che la popolazione salentina poteva permettersi. Per la scarsità dei piatti a base di carne, troppo costosa per i contadini [1].
Tuttavia, la fantasia delle massaie salentine è riuscita nei secoli a creare piatti appetitosi con pochi ingredienti. Vediamoli, questi ingredienti.
Papaveri (paparina o fritta cu lle vulie nivere); rape, lumache (sciurmaneddhi) e lumachine (cozze piccinne) lessate e poi condite con olio, aglio e origano; olive nere, grano; muscari (pampasciuni), pane raffermo, piselli secchi, attinie (urdichelle), alicette (pupiddhi), romice; peperoni (paparussi) e peperoncino, semi di melone (semata), carne di pinna nobile (cozzapinna), granchi (cavure), cardi selvatici, interiora di agnello (gnommareddhi), sangue di maiale (sanghunazzu), grano in sfoglia fritta (cautunatu), pane in zuppa di siero e scarti di ricotta (fiuruta), pane nel brodo (sciuscella), frise [2], focacce, torte rustiche, la pitta e le pittule [3] ai più vari ingredienti; peperonata (salamura cotta), ricotta forte (ricotta ‘scante), cipolle (spunzali), brodo di pesce, (sciotta de pisce), pane frittu, fave e cicorie (fave nette e cicore), foglie agresti (foje reste [4]), rape all’oiu fattu, futtimariti (frittelle di pastella con capperi, tonno, baccalà, fiuri de cocuzza, acciughe).
Si tratta sempre di ingredienti semplici: pesci umili, carni di scarto, legumi secche, piante selvatiche, con cui però si preparano pietanze eccelsi, e con condimenti che non sono mai grassi – specie per la pasta fatta in casa con semola di grano duro e scuro.
I piatti più tipici sono, tra i primi, le pappardelle ritorte su se stesse (sagne ‘ncannulate) di farina di grano, i maccheroncini (minchiarieddi) di orzo e grano, la pasta e ceci (ciceri e tria [5]).
Tra i secondi di carne, quella di cavallo tagliata a pezzi (pezzetti), le polpette, le lumache, i gnommareddhi. Le ricette a base di pesci e crostacei sempre freschi sono forse impareggiabili: aragoste pescate con le nasse, ricci, cozze nere, seppie, triglie, calamari, polpi… Da assaggiare le alici, tenere e piccole, vendute dai pescatori appena sbarcati, e il polpo arricciato e cotto in pignata a fuoco lento. Da settembre si trovano ricciole, palamite, tonno. Un piatto prelibato che si trova soprattutto a Gallipoli è la scapece. Il nome deriva dallo spagnolo escabeche (pesciolini in aceto), ma è una preparazione di tradizione araba. Il pesce è l’ingrediente principale, viene fritto e fatto marinare tra strati di mollica di pane imbevuta con aceto e zafferano, all’interno di tinozze che in gallipolino si chiamano calette.
E siamo arrivate alla frutta: in estate fichi, – che in salentino si chiamano fiche, – e poi fichi d’india. D’inverno agrumi – arance e mandarini soprattutto – la cui buccia si usa in molte preparazioni dolciarie. Si coltivano anche piccole pere, pesche, albicocche, angurie, nespole e meloni.
Ed eccoci ai dolci, di tutte le forme, con ricette tramandate quasi in segreto dalle donne: segno d’un popolo goloso e raffinato. Torrone (cupeta), cotognata, murfettate, di marmellata d’uva; carteddhate, sfoglia insaporita con arance, miele, liquore, fritta e spolverata di anisini, pinoli, cannella. E poi rattate (ghiaccio grattugiato condito con sciroppi dolci e colorati), mustazzoli [6], purceddhuzzi [7], paparussi fritti, granita de café cu la panna… E poi. E poi c’è il pasticciotto leccese. E’ a base di pasta frolla e crema pasticcera, e viene realizzato in piccole forme ovali [8]. Come l’opera lirica, come l’Avana, non serve a niente raccontare il pasticciotto: bisogna assaggiarlo.
A tutte queste prelibatezze non è difficile abbinare un ottimo vino locale. La produzione delle enoteche salentine è ormai di fama mondiale, e ce n’è per tutti i gusti. Soprattutto rossi, ma anche rosati, rosatelli, bianchi…
Se ti piacciono l’olio d’oliva,
la crema pasticcera
e il vento,
vedrai che caschi anche tu
innamorata del Salento.
Se ti piacciono le mandorle,
il sole caldo,
la gente che sorride
e un popolo in fermento
vedrai che poi ci torni, nel Salento.
NOTE
[1] In effetti, i meno abbienti mangiavano la carne soltanto la domenica e mischiata con molto pane per farne polpette. Ed era molto diffusa la carne di cavallo: usati per i lavori nei campi e come mezzo di trasporto, quando erano troppo vecchi i cavalli servivano come alimento. E nel periodo pasquale in cui è tradizione mangiare l’agnello, la popolazione in realtà ne consumava gli scarti, cioè le interiora.
[2] E’ un pane biscottato, una sorta di ciambella di grano duro o d’orzo a lunghissima conservazione duro come una pietra e che s’intenerisce dopo essere stato tenuto in acqua per qualche secondo. Ritrovata tenerezza, si ripropone con il suo buon sapore di grano da esaltare con pomodori al filo, cetrioli, origano, rucola, cipolla, olio d’oliva, sale e peperoncino.
[3] Frittelle di pasta, cui si possono aggiungere acciughe, cavolfiore, cime di rapa, pomodoro, baccalà, Immancabili al cenone della notte di Natale.
[4] La foja mmisca (alla lettera: foglie mischiate) può considerarsi la madre della gastronomia tradizionale della Grecìa salentina: è infatti una ricetta antica, dagli ingredienti poverissimi anche se ormai pressoché introvabili sul mercato, di esecuzione semplicissima, di risultato squisito. Si utilizzano più di dieci verdure selvatiche (delle quali il territorio è ancora ricco nel periodo invernale), non necessariamente sempre le stesse. Ben lavate e ripulite delle parti secche, vengono sbollentate e poi riversate in una seconda pentola nella quale si è soffritto aglio e cipolla. Si copre il tutto e si lascia cuocere a fuoco lento. A metà cottura si può aggiungere formaggio pecorino grattugiato. Una variante che arricchisce la ricetta consiste nel soffriggere insieme all’aglio ed alla cipolla dei pezzetti di carne di maiale.
[5] La tria vien preparata lavorando la semola e la farina con acqua tiepida precedentemente salata, fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo, che dovrà essere lasciato riposare per almeno mezz’ora sotto un panno umido. L’impasto verrà successivamente diviso in più parti, che separatamente verranno stese con il matterello dando origine alle sfoglie, da cui piegando e ritagliando si ricaverà la tria. I ceci, tenuti a bagno per almeno dieci ore con il bicarbonato, dopo esser stati salati e lavati, vengono messi a cuocere in acqua abbondante con qualche foglia di alloro. A metà cottura dovranno essere nuovamente scolati e rimessi a cuocere in un’altra pentola con altra acqua bollente, questa volta unitamente a tutte le verdure. Quando la cottura dei ceci è ormai prossima, una piccola parte della tria verrà fritta in olio bollente, la rimanente lessata in abbondante acqua salata. Alla fine si unisce il tutto e al momento di servire si cosparge con pepe macinato.
[6] A base di farina, zucchero, mandorle, limone, cannella, miele ed altri aromi, ricoperti da una leggera glassa a base di cioccolato.
[7] Dolce tipico delle festività natalizie, a forma appunto di maialino. L`ingrediente primario sono le mandorle. Piccoli gnocchi fritti dal gusto speziato, addolciti con miele e per di più aromatizzati all`anice ed alla cannella. Secondo gli usi locali l`ultimo purceddhuzzu si deve consumare per il giorno di Sant`Antonio Abate, protettore degli animali.
[8] Oppure a forma tonda nella grandezza di una torta, misura preferibile nel caso di preparazione casalinga.