FAQ - Le Sciare


Le domande delle donne sono imprevedibili e soprattutto singolari, risultato di curiosità, esperienze e intelligenze complesse e magnifiche.

Non pretendiamo qui di esaurirne la varietà, ci piace però provare a rispondere a quelle che già ci sono state poste, e ad immaginarne qualche altra.

 

 

 

Bisogna portarsi lenzuola e asciugamani?

No. La biancheria dei letti e dei bagni, e gli asciugamani della piscina, sono pronti per le ospiti. Così come il sapone liquido.

È necessario invece che ciascuna si porti i teli, gli accappatoi, le creme solari e quanto altro le occorre per la spiaggia.

Che gite si possono fare nei dintorni?

Tutto il Salento è ricco di arte e vale la pena di essere girato in lungo e in largo. Dalle tracce preistoriche, messapiche, al romanico e al barocco. Un’arte dove si fondono elementi bizantini, greci, normanni. Piccole edicole poggiate tra gli ulivi, dolmen e menhir, castelli aragonesi e torri di avvistamento, chiese, altari, affreschi, borghi medievali e masserie fortificate… E poi i parchi, e le grotte. E il mare, le scogliere a picco, un paesaggio variato e tra i più belli dell’Italia.

E non sono viaggi stancanti e faticosi. Si va – in automobile – dalla costa adriatica a quella ionica in meno di un’ora, si fa il giro del Capo di Leuca da Otranto a Gallipoli in meno di due.

Non volendo fare escursioni più lunghe, anche nelle immediate vicinanze de Le Sciare ci sono città e paesi che meritano una visita: Lecce, famosa nel mondo per il suo barocco, Melendugno, san Foca, Roca, Torre dell’Orso, Otranto, Acaya, Acquarica di Lecce, Borgagne, Calimera, Martano, san Cataldo, Vernole… E il parco delle Cesine, un’oasi naturalistica di rara bellezza, gestita dal WWF: 620 ettari di ricca e varia vegetazione, e una numerosa fauna stanziale e migratoria.

Per chi predilige la bicicletta: il Salento è costellato di percorsi ciclabili che traversano uliveti e macchia mediterranea, nel silenzio e nei chiaroscuri di una terra incontaminata.

Chi sono le Tarantate?

(con la collaborazione di Annarita Colonna)

Galatina è un grosso centro agricolo e artigianale, di antiche tradizioni culturali, quasi al centro della penisola salentina. Merita una visita la Basilica di santa Caterina d’Alessandria (XIV-XV secolo), monumento nazionale e con affreschi del tardo 1400.

La chiesa dei santi Pietro e Paolo, detta anche Chiesa Madre, è invece del 1600. Nelle sue immediate vicinanze c’è la Cappella di san Paolo, legata al fenomeno delle Tarantate.

Le Tarantate sono donne, in genere di giovane età, che ritengono d’esser state morse dalla taranta[1] nel corso di lavori campestri, ad esempio la raccolta delle spighe residue della mietitura. Per causa di questo morso le Tarantate sono preda d’un malessere psicofisico.

Si ritiene che il morso non sia una causa reale, ma il pretesto per l’esplosione di disagi dovuti alla condizione contadina in generale e femminile in particolare.

In ogni modo la guarigione non è ottenuta con farmaci ma con il ricorso ai colori e alle musiche.

La taranta, che dopo il morso possiede la donna, è infatti sensibile ad alcuni colori e ad alcune musiche: quando, dopo vari tentativi, si trovano il colore e la musica adatti, la Tarantata reagisce ad essi e con particolari movimenti di danza si libera dell’animale.

Questo ciclo di danze avviene dove vive la Tarantata. Tutto il Salento è interessato al fenomeno, ma c’è una particolare concentrazione nei paesi del Capo, la zona attorno al promontorio di Santa maria di Leuca.

Dopo il risanamento, la Tarantata deve ringraziare san Paolo per la guarigione ottenuta (nella tradizione san Paolo protegge dai serpenti, e anche dai ragni). Si reca perciò a Galatina, appunto alla Cappella di san Paolo, e lì compie per l’ultima volta la propria danza liberatoria. Dopo di che va nella Chiesa Madre a pregare il santo. Il tutto avviene a fine giugno, nei giorni della festa dei santi Pietro e Paolo.

Pare che proprio la presenza della Cappella di san Paolo sia la ragione per cui il territorio della città è sempre stato e rimane protetto dal fenomeno del tarantismo. Non si conoscono infatti Tarantate provenienti da Galatina.

NOTE
[1] O tarantola. E’ il nome con cui nella tradizione popolare del Salento viene chiamato un ragno comune nella regione, volgarmente detto Ragno Lupo (Lycosa tarentula).

Ci sono gruppi di donne, nei dintorni?

Nel marzo del 2009 si è aperta a Lecce la Casa delle donne, nel bellissimo – ma bisognoso di cure – edificio dell’ex liceo musicale Tito Schipa, nel centrale viale dell’Università.

Risultato del lavoro e dell’impegno di molte donne salentine, riunite in nove associazioni [1] che hanno costituito la Libera Federazione delle Donne, la Casa delle Donne a Lecce vuole diventare “un luogo dove le donne del Salento potranno incontrarsi, progettare, riflettere, divertirsi, condividere e crescere insieme. L’obiettivo fondamentale è creare le condizioni per accrescere l’autodeterminazione e la libertà di tutte le donne, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, dalla loro etnia, dalla loro religione, dal loro orientamento politico, dalla loro classe sociale, dal loro livello culturale, e sarà aperta a tutte coloro che vorranno fruire delle attività e dei servizi offerti.”
Dal 2017 è aperto anche l’Alveare di Lecce associazione di promozione sociale che cerca di offrire possibilità di lavoro alle donne Leccesi così come uno sportello di orientamento ed aiuto per le donne.
http://alvearelecce.org/page.php?8

liberafederazionedonne.lecce@yahoo.it

Ci sono poi vari gruppi informali di donne. Il più significativo e importante lavora attorno a Marisa Forcina (docente all’Università del Salento) e organizza dibattiti, incontri di riflessione politica, e l’ormai celebre Scuola Estiva della Differenza, giunta ormai all’ottava edizione.

[NOTE

AWMR digilander.libero.it/awmr/

La Linguère Associazione di donne senegalesi

Associazione Le Meticce

NaEmi Forum di Donne Native e Migranti naemiforumdonne@yahoo.it

Rete di Donne per la 194 rete194.wordpress.com/

Trust Nel Nome della Donna www.nelnomedelladonna.org

WILPF digilander.libero.it/awmr/wilpf

Ci sono mercati e fiere, nei dintorni?

A Melendugno c’è il mercato settimanale il mercoledì mattina. A san Foca è la domenica mattina d’inverno, il martedì mattina nei mesi estivi. A Torre dell’Orso soltanto d’estate, il sabato mattina.

A Lecce c’è un bel mercato dell’usato il lunedì e il venerdì mattina, nei pressi dello stadio di calcio.

Il Salento, specialmente in estate, ha sagre e fiere a bizzeffe. Quasi ogni paese organizza la propria – delle olive, del polpo, delle rane, del peperone… E in tutti i mesi dell’anno c’è qualche festa patronale, in tanti centri salentini. Un buon indirizzo per vedere gli eventi è: www.salentu.com/calendario.asp

Ecco in ogni modo le più importanti feste estive:

Lecce 24-25-26 agosto – festa in onore dei Santi Oronzo, Giusto e Fortunato patroni della città con fiera del bestiame e dei prodotti agricoli.

Borgagne 6-7-8 agosto – sagra ortofrutticola e musica.

Carpignano Salentino 2-3 luglio – festa della Madonna della Grotta con luminarie, processione, banda e fuochi pirotecnici.

Galatina 28-29-30 giugno – festa dei Santi Pietro e Paolo in occasione della quale si esorcizzano le tarantate, che ballano freneticamente al suono dei tamburelli.

Martano 15 agosto – festa della Madonna dell’Assunta con processione, luminarie, banda e degustazione di prodotti tipici e fuochi d’artificio finali.

Otranto 14-15-16 agosto – festa dei Santi Martiri per ricordare la strage del 1480.

Otranto prima domenica di settembre – processione della Madonna dell’Alto Mare, a bordo delle barche.

Ruffano, 15-16 agosto – fiera in onore di San Rocco; per tutta la notte si balla al ritmo frenetico della pizzica pizzica con la caratteristica Danza delle Spade.

Come si arriva?

Percorrendo da san Cataldo la strada provinciale 366 (la litoranea che appunto da san Cataldo porta a Otranto e viceversa), al chilometro 11 e 760 metri – tra Torre Specchia Ruggeri e san Foca – ecco il cancello, con intagliati un sole e una luna, della Masseria Le Sciare.

Si può arrivare in automobile, com’è ovvio. Venendo da nord si percorre l’autostrada del sole fino a Bari, poi la superstrada verso Lecce. Poco prima di entrare in Lecce, quando già si vedono le prime costruzioni, si incontrano le tangenziali della città: una, la ovest, va verso santa Maria di Leuca; la seconda, la est, va verso Otranto. Si prende la est, e si esce all’uscita 8B – che porta l’indicazione Litoranea. Si percorre la strada per una decina di chilometri, fino ad arrivare ad un semaforo dove si può andare soltanto a destra o a sinistra. Si va a destra, e da quel momento ci si trova sulla provinciale 366. Lì, si è al chilometro due. Si procede fino al chilometro 11 e 760 metri, fino al cancello della Masseria Le Sciare. Venendo da sud si seguono le indicazioni per san Cataldo, ci si troverà sulla provinciale 366.

E poi. In treno, a Lecce. Da Lecce, soltanto durante il periodo estivo, ci sono autobus che percorrono anche la costa Adriatica e fermano nei pressi de Le Sciare (tempo di viaggio circa mezz’ora).

E in aereo, a Brindisi. Dall’aeroporto Papola Casale di Brindisi, una navetta porta al Terminal di Lecce centro (tempo del viaggio circa un’ora).

Noi in ogni modo e in tutte le stagioni a volte abbiamo la possibilità di darvi un servizio, da concordare in anticipo, che vi riceve a Brindisi in aeroporto, a Lecce al terminal o in stazione, e vi accompagna alla Masseria.

Com’è il clima? Come vestirsi?

Tutto il Salento è influenzato dal clima mediterraneo. E il mar Mediterraneo costituisce d’inverno una enorme riserva di calore. La mitezza delle condizioni atmosferiche è determinata a Le Sciare anche dalla vicinanza al mare.

In primavera le giornate sono soleggiate e le piogge scarse. Come dice Rosamaria Lettieri, la primavera accende i giardini. Andrà bene un abbigliamento leggero, con giacche o pullover per la sera, e scarpe comode per le passeggiate.

L’estate è calda, spesso molto calda, e asciutta. Sulla spiaggia è proprio opportuno proteggersi con creme solari. La sera, se il vento è scirocco, l’umidità cresce: consigliabile perciò un maglioncino di cotone, o una giacca leggera.

In autunno arriva una straordinaria mescolanza di colori – dalle diverse tonalità del verde a quelle del marrone. Le piogge sono scarse, la temperatura diurna non scende sotto i 14-16 gradi, e la notturna sotto i 7-8. Il che permette, soprattutto la mattina e nel primo pomeriggio, di passare il tempo all’aperto. L’abbigliamento deve essere un po’ più pesante, ma è sufficiente un maglione di lana, e un’impermeabile per ogni evenienza.

L’inverno è breve e mite. Le giornate fredde sono soprattutto in gennaio ma sono davvero poche e in generale non si mai troppo sotto i 10 gradi; anzi, non è raro passeggiare in riva al mare indossando semplicemente un caldo giubbotto. E già in febbraio la campagna prende a ritrovare i colori dell’estate

Com’è la cucina salentina?

(con la collaborazione di Chiara Del Re)

Zzuccuru e ccafé:

la vita cusì è.

Povera e semplice ma di formidabili sapori. Priva di mezzi ma allo stesso tempo ricca. E genuina. Tipica del Mediterraneo, e valorizzata dalle qualità del mare e della terra. Con gustosità decise ma anche delicate. Sostenuta, avvantaggiata, sedotta dal suo superbo olio d’oliva, la cucina salentina è davvero povera per gli ingredienti usati, a partire dalle farine poco raffinate: la farina d’orzo per esempio, meno costosa di quella di grano. Per l’uso di verdure coltivate e selvatiche – che si trovano anche a Le Sciare, in pineta, insieme ad ottimi funghi, in autunno – e di altri prodotti della terra. Per l’impiego di pesce azzurro, oggi anche altrove rivalutato ma un tempo l’unico pesce che la popolazione salentina poteva permettersi. Per la scarsità dei piatti a base di carne, troppo costosa per i contadini [1].

Tuttavia, la fantasia delle massaie salentine è riuscita nei secoli a creare piatti appetitosi con pochi ingredienti. Vediamoli, questi ingredienti.

Papaveri (paparina o fritta cu lle vulie nivere); rape, lumache (sciurmaneddhi) e lumachine (cozze piccinne) lessate e poi condite con olio, aglio e origano; olive nere, grano; muscari (pampasciuni), pane raffermo, piselli secchi, attinie (urdichelle), alicette (pupiddhi), romice; peperoni (paparussi) e peperoncino, semi di melone (semata), carne di pinna nobile (cozzapinna), granchi (cavure), cardi selvatici, interiora di agnello (gnommareddhi), sangue di maiale (sanghunazzu), grano in sfoglia fritta (cautunatu), pane in zuppa di siero e scarti di ricotta (fiuruta), pane nel brodo (sciuscella), frise [2], focacce, torte rustiche, la pitta e le pittule [3] ai più vari ingredienti; peperonata (salamura cotta), ricotta forte (ricotta ‘scante), cipolle (spunzali), brodo di pesce, (sciotta de pisce), pane frittu, fave e cicorie (fave nette e cicore), foglie agresti (foje reste [4]), rape all’oiu fattu, futtimariti (frittelle di pastella con capperi, tonno, baccalà, fiuri de cocuzza, acciughe).

Si tratta sempre di ingredienti semplici: pesci umili, carni di scarto, legumi secche, piante selvatiche, con cui però si preparano pietanze eccelsi, e con condimenti che non sono mai grassi – specie per la pasta fatta in casa con semola di grano duro e scuro.

I piatti più tipici sono, tra i primi, le pappardelle ritorte su se stesse (sagne ‘ncannulate) di farina di grano, i maccheroncini (minchiarieddi) di orzo e grano, la pasta e ceci (ciceri e tria [5]).

Tra i secondi di carne, quella di cavallo tagliata a pezzi (pezzetti), le polpette, le lumache, i gnommareddhi. Le ricette a base di pesci e crostacei sempre freschi sono forse impareggiabili: aragoste pescate con le nasse, ricci, cozze nere, seppie, triglie, calamari, polpi… Da assaggiare le alici, tenere e piccole, vendute dai pescatori appena sbarcati, e il polpo arricciato e cotto in pignata a fuoco lento. Da settembre si trovano ricciole, palamite, tonno. Un piatto prelibato che si trova soprattutto a Gallipoli è la scapece. Il nome deriva dallo spagnolo escabeche (pesciolini in aceto), ma è una preparazione di tradizione araba. Il pesce è l’ingrediente principale, viene fritto e fatto marinare tra strati di mollica di pane imbevuta con aceto e zafferano, all’interno di tinozze che in gallipolino si chiamano calette.

E siamo arrivate alla frutta: in estate fichi, – che in salentino si chiamano fiche, – e poi fichi d’india. D’inverno agrumi – arance e mandarini soprattutto – la cui buccia si usa in molte preparazioni dolciarie. Si coltivano anche piccole pere, pesche, albicocche, angurie, nespole e meloni.

Ed eccoci ai dolci, di tutte le forme, con ricette tramandate quasi in segreto dalle donne: segno d’un popolo goloso e raffinato. Torrone (cupeta), cotognata, murfettate, di marmellata d’uva; carteddhate, sfoglia insaporita con arance, miele, liquore, fritta e spolverata di anisini, pinoli, cannella. E poi rattate (ghiaccio grattugiato condito con sciroppi dolci e colorati), mustazzoli [6], purceddhuzzi [7], paparussi fritti, granita de café cu la panna… E poi. E poi c’è il pasticciotto leccese. E’ a base di pasta frolla e crema pasticcera, e viene realizzato in piccole forme ovali [8]. Come l’opera lirica, come l’Avana, non serve a niente raccontare il pasticciotto: bisogna assaggiarlo.

A tutte queste prelibatezze non è difficile abbinare un ottimo vino locale. La produzione delle enoteche salentine è ormai di fama mondiale, e ce n’è per tutti i gusti. Soprattutto rossi, ma anche rosati, rosatelli, bianchi…

Se ti piacciono l’olio d’oliva,
la crema pasticcera
e il vento,
vedrai che caschi anche tu
innamorata del Salento.
Se ti piacciono le mandorle,
il sole caldo,
la gente che sorride
e un popolo in fermento
vedrai che poi ci torni, nel Salento.

NOTE
[1] In effetti, i meno abbienti mangiavano la carne soltanto la domenica e mischiata con molto pane per farne polpette. Ed era molto diffusa la carne di cavallo: usati per i lavori nei campi e come mezzo di trasporto, quando erano troppo vecchi i cavalli servivano come alimento. E nel periodo pasquale in cui è tradizione mangiare l’agnello, la popolazione in realtà ne consumava gli scarti, cioè le interiora.

[2] E’ un pane biscottato, una sorta di ciambella di grano duro o d’orzo a lunghissima conservazione duro come una pietra e che s’intenerisce dopo essere stato tenuto in acqua per qualche secondo. Ritrovata tenerezza, si ripropone con il suo buon sapore di grano da esaltare con pomodori al filo, cetrioli, origano, rucola, cipolla, olio d’oliva, sale e peperoncino.

[3] Frittelle di pasta, cui si possono aggiungere acciughe, cavolfiore, cime di rapa, pomodoro, baccalà, Immancabili al cenone della notte di Natale.

[4] La foja mmisca (alla lettera: foglie mischiate) può considerarsi la madre della gastronomia tradizionale della Grecìa salentina: è infatti una ricetta antica, dagli ingredienti poverissimi anche se ormai pressoché introvabili sul mercato, di esecuzione semplicissima, di risultato squisito. Si utilizzano più di dieci verdure selvatiche (delle quali il territorio è ancora ricco nel periodo invernale), non necessariamente sempre le stesse. Ben lavate e ripulite delle parti secche, vengono sbollentate e poi riversate in una seconda pentola nella quale si è soffritto aglio e cipolla. Si copre il tutto e si lascia cuocere a fuoco lento. A metà cottura si può aggiungere formaggio pecorino grattugiato. Una variante che arricchisce la ricetta consiste nel soffriggere insieme all’aglio ed alla cipolla dei pezzetti di carne di maiale.

[5] La tria vien preparata lavorando la semola e la farina con acqua tiepida precedentemente salata, fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo, che dovrà essere lasciato riposare per almeno mezz’ora sotto un panno umido. L’impasto verrà successivamente diviso in più parti, che separatamente verranno stese con il matterello dando origine alle sfoglie, da cui piegando e ritagliando si ricaverà la tria. I ceci, tenuti a bagno per almeno dieci ore con il bicarbonato, dopo esser stati salati e lavati, vengono messi a cuocere in acqua abbondante con qualche foglia di alloro. A metà cottura dovranno essere nuovamente scolati e rimessi a cuocere in un’altra pentola con altra acqua bollente, questa volta unitamente a tutte le verdure. Quando la cottura dei ceci è ormai prossima, una piccola parte della tria verrà fritta in olio bollente, la rimanente lessata in abbondante acqua salata. Alla fine si unisce il tutto e al momento di servire si cosparge con pepe macinato.

[6] A base di farina, zucchero, mandorle, limone, cannella, miele ed altri aromi, ricoperti da una leggera glassa a base di cioccolato.

[7] Dolce tipico delle festività natalizie, a forma appunto di maialino. L`ingrediente primario sono le mandorle. Piccoli gnocchi fritti dal gusto speziato, addolciti con miele e per di più aromatizzati all`anice ed alla cannella. Secondo gli usi locali l`ultimo purceddhuzzu si deve consumare per il giorno di Sant`Antonio Abate, protettore degli animali.

[8] Oppure a forma tonda nella grandezza di una torta, misura preferibile nel caso di preparazione casalinga.

Com’è la musica salentina?

(con la collaborazione di Rosamaria Lettieri)

Beddu l’amuri e ci lu sape fa… e sono in centomila a cantarlo, l’ultimo sabato di agosto a Melpignano, una folla immensa a celebrare la Notte della Taranta. E tutti ballano la pizzica, ma proprio tutti tutti. Al ritmo di ossessive tamborre e allegrissimi tamburelli.

La pizzica è una sorta di tarantella più semplice e innocente della smaliziata sorellastra napoletana. Più semplice soprattutto melodicamente, in quanto non ha costruzioni melodiche elaborate, ma frasi musicali abbastanza elementari. Espressione di una civiltà contadina poco contaminata, e le masserie fortificate certificano nel paesaggio questa chiusura al bene e al male del mondo esterno.

Di pizziche se me riconoscono tre tipologie principali: la pizzica tarantata, la pizzica de core, e la pizzica scherma.

La pizzica tarantata è la danza terapeutica di guarigione dal morso della taranta. La caratteristica della musica è il ritmo ossessivo dei tamburelli e l’ipnosi delle frasi di violino, continue e ripetitive.

La pizzica de core è la danza del corteggiamento, della scelta del compagno, e dell’espressione del sentimento d’amore. Qui la melodia è meno frammentata ed ipnotica, e si concede costruzioni più articolate. Il ritmo s’addolcisce nell’allegria ammiccante delle tiritacchere (nacchere), il violino allunga il proprio fraseggio ed il canto è più armonioso.

La pizzica scherma (detta anche danza delle spade) è la rappresentazione di antichi duelli rusticani. Questo tipo di pizzica fu introdotta in Salento dagli zingari [1], che gestivano il mercato del bestiame. In questo caso la musica è più irruenta e le scansioni ritmiche più decise e fracassone. Non manca il violino (tanto amato dagli zingari) che però viene usato per sottolineare ritmicamente la drammaticità del rito.

Nel panorama della musica tradizionale salentina un posto d’onore spetta ai canti della Grecìa salentina. La strina è un canto griko religioso/pagano che sottolinea di volta in volta festività, appuntamenti sociali e naturali – matrimoni, raccolto, semina, Natale, Epifania… Questa espressione musicale risente dei modelli compositivi ellenici, nel modo del canto che è allungato e leggermente arabeggiante, e nella forma strumentale che ha un ritmo frammentato e sottolineato da chitarre pizzicate. E’ un po’ come la nonna del sirtaki.

In ogni modo quando si è in Salento la musica si può vivere in cento piazze di cento affascinanti paesi nobilmente e raffinatamente rurali, piazze che spesso si trasformano in entusiasmanti palcoscenici dove si può cantare, ballare e – se si è morse dalla taranta – guarire e gioire!

NOTE
[1] Numerosi in tutta la Puglia ma soprattutto nel Salento, i rom sono stati grandi allevatori di cavalli. C’è ancora da parte delle rumrià (donne) una produzione artigianale di piccoli attrezzi in metallo per l’economia domestica; è non è rara la gestione di macellerie equine.

Cosa vuol dire Sciare?

In Sicilia e in Campania la sciara è la lingua di lava.

In dialetto melendugnese [1] invece vuol dire Strega. La Sciara è la strega buona, mentre quella cattiva è la Masciara. Nelle leggende locali, spesso si racconta di Sciare e Masciare.

E alcune anziane donne del paese ancora ricordano la litania con cui le streghe – loro ascendenti – si davano convegno. Che recita così: Te sutta scorpi, te sutta pariti, all’arulu te mini mienzu nimu chiare (Al di sotto della siepe, al di sotto dei muri, all’albero di mezzo ci dobbiamo incontrare).

Una siepe che – come quella di cui ha scritto Luisa Muraro ne Il Mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio (Mondadori 2009) – ci porta in prossimità dell’invisibile e rende udibile il suono dell’infinito.

NOTE
[1] Che è diverso dal dialetto leccese, o tarantino, o brindisino. In generale, il dialetto salentino è carico di influenze riconducibili alle dominazioni che si sono susseguite nei secoli, dai Messapi agli Spagnoli. Si tratta ad ogni modo di una parlata romanza che in tutto il medioevo fu contrapposta ai dialetti ellenofoni, diffusisi a seguito dello stanziamento di greci nella regione favorito dall’Impero Bizantino. Così per secoli si produsse una sorta di area bilingue, di cui oggi è ancora testimonianza l’area della Grecìa Salentina. Il lessico salentino ha preso molti prestiti da altre lingue romanze (spagnolo e francese), risentendo solo marginalmente dell’influsso dei dialetti greci già citati. Parole e costrutti presenti nel salentino e chiaramente riferibili alla lingua greca, in alcuni casi, sono riconducibili direttamente al periodo della Magna Grecia, piuttosto che alla successiva dominazione bizantina. Significativa per esempio è la parola melagrana, che in salentino suona sita, un termine che sembra legato più al greco antico sida che non al moderno ρόδι (rodi), a cui invece si avvicina il griko rudi. Le prime tracce scritte del dialetto salentino risalgono all’XI secolo: si tratta di 154 glosse in caratteri ebraici, contenute in un manoscritto conservato a Parma, la cui datazione si fa risalire intorno al 1072, proveniente dall’accademia talmudica di Otranto, attiva fra il IX e l’XII secolo. Il salentino usato nelle glosse è ancora in bilico fra latino e volgare, con parecchi grecismi: alcune glosse specificano nomi di piante, talora chiaramente identificabili (lenticla nigra, cucuzza longa, cucuzza rutunda, ecc.), talora no (tricurgu, scirococcu, ecc.). Altre glosse specificano le diverse operazioni che si possono fare nella coltivazione (pulìgane: “tagliano le sporgenze dell’albero”; sepàrane: “staccano le foglie secche”; assuptìgliane: “coprono di terra fine le radici che si sono scoperte”).

Thanks to Wiki.

Cos’è una Masseria?

Una supposizione vuole che – avendo la frammentazione delle grandi proprietà fondiarie sviluppato unità territoriali dette massae, affidate alla conduzione dei massari – la parola masseria sia di origine latina.

Un’altra ipotesi fa risalire la parola alla derivazione celtica – dai termini mas, campagna, ed er, abitazione. In ogni modo, le masserie hanno rappresentato per diversi secoli nel Salento e nel sud un fenomeno di grande importanza sia dal punto di vista economico sia da quello culturale e sociale. Qualcuna – forse soltanto i nuclei originari o addirittura le sole zone di insediamento – si vuol far risalire alla colonizzazione romana. Più verosimilmente, molte risalgono al periodo feudale in senso lato, come momento di un’economia rurale accentrata e necessariamente autosufficiente; altre risalgono ad insediamenti monastici – ricorre spesso infatti la denominazione di Masseria delle Monache o dei Monaci – che nel Medio Evo istituirono una loro economia con la quale alimentare la comunità.

Le masserie sono state per lo più aziende rurali imperniate sulla pastorizia e sull’agricoltura.

L’impostazione delle masserie presenta il motivo ricorrente del cortile centrale attorno al quale si distribuiscono i diversi corpi di fabbrica: l’abitazione del massaro o, occasionalmente, del proprietario fondiario; le stalle e i recinti per gli animali; le strutture destinate alla conservazione e alla lavorazione dei prodotti della terra e dell’allevamento.

C’è servizio di pulizia nelle camere?

Sì. Le stanze sono rassettate un giorno si e uno no escluso la domenica, e una volta alla settimana c’è il cambio della biancheria letto e bagno. In cucina c’è una lavapiatti, e le donne che soggiornano alle Sciare sono tenute a mantenere la cucina in ordine.

Da dove viene il nome del paese Melendugno?

Varie sono le ipotesi, diciamo pure le leggende. Una è che il re messapico Malennio – figlio di Dasumno, che proveniva da Rodi, e nipote di re Sale (il mitico re dei Messapi che ha dato il nome al Salento) – avrebbe fondato Syrbar (primo nome della località costiera Roca, che significa Città del Sole), nonché Lyppiae (l’attuale Lecce) e Rudiae. Perciò il toponimo di Melendugno nascerebbe dalla radice del suo nome, Malen-nio; in seguito si trasformò in Malandugno (portatore di sventura) e poi in Melendugno (portatore di dolcezza).

A noi piace molto, piuttosto, questa narrazione tradizionale, raccolta da Antonio Nahi in La Brunese e altri racconti (Zane Editrice):

La Brunese era figlia del Vento e della Pioggia, partorita in una notte di plenilunio. Ancora bambina sì aggirava sola e nuda per le paludi, anch’esse nate in quella notte di mistero. Da giovinetta era schiva e scontrosa; si recava sovente al villaggio degli Anacoreti, poco distante, dove apprese i segreti di un’antica medicina e coltivò gli studi degli astri e della magia. Col tempo la sua stupenda ed esuberante bellezza e le precoci capacità di guaritrice richiamarono nelle terre delle paludi non soltanto villani e pastori ma cerusici, guaritori e astronomi. Proprio questi la battezzarono Brunese, per la lunga chioma corvina che rifletteva i colori del mare, quando il sole giocava su quel meraviglioso corpo ambrato. Il suo portamento era fiero e sicuro, spesso appariva all’improvviso come una nifna delle paludi, grondante acqua e con qualche anguilla catturata a mani nude, vestiva con le pelli delle volpi che rincorreva e catturava. Bella e selvaggia, la Brunese era una donna non comune.

“Quel che non è comune è peccaminoso com’è peccaminoso quel corpo ammaliante che s’aggira seminudo per le paludi conquistando e facendo impazzire gli uomini con lo sguardo dei suoi occhi neri e maliardi che penetrano nel cuore e dannano l’anima.” Era quanto sostenevano gli uomini del vicino villaggio di Roca Nuova e delle masserie limitrofe.

La Brunese non aveva colpa se gli uomini si sfidavano contendendosi il suo amore, del resto mai concesso ad alcuno. Lei si prodigava per chi soffriva e per chi chiedeva aiuto: curava i mali, propinava sciroppi d’erbe, confezionava unguenti medicamentosi contro le febbri della malaria, accendeva fuochi per ardere fascine imbevute di filtri magici affinché il fumo, spinto da suo padre il Vento nelle paludi, distruggesse i germi della malaria. Altre volte bolliva strane pozioni in un calderone: un vapore denso e rozzo come sangue saliva al cielo tra le nubi; sua madre la Pioggia l’avrebbe restituito alla terra per spegnere la sete delle riarse colture, nutrendo i teneri germogli.

Poi l’amore non corrisposto di un uomo divenne odio e l’odio viltà. La Brunese faceva molto chiacchierare e il signorotto, per l’ennesima volta rifiutato, non faticò a trovare le armi per la propria vendetta. La notizia che in luogo sperduto della Terra d’Otranto viveva una strega malefica giunse presto ai Giudici della Chiesa e i frati inquisitori furono mandati a indagare. Il signorotto rifiutato e sdegnato per l’orgoglio ferito costrinse i suoi fidati a fornire prove certe agli inquisitori, a carico della sciara Brunese.

Il processo iniziò nel 1587. Al Vicario della Santa Inquisizione furono inviati atti d’accusa che definivano la Brunese donna perversa e peccaminosa, dedita alla stregoneria, per cui era necessario cancellare per sempre da quella terra il morbo del male! Gli atti erano corredati da varie testimonianze: “Vidi su di una altura la Brunese completamente nuda ballare e cantare sotto la pioggia, invocando le forze del male. Quella sciara consumava un Sabba in onore del maligno!”… “Ho visto con questi occhi la Brunese rincorrere e catturare una lepre, strapparle il cuore con le mani e mangiarlo ancora caldo e grondante sangue. Non ancora sazia, quella donna malvagia mangiò miele d’api a piene mani – ne possiede numerosi sciami – senza ch’esse azzardassero d’attaccarla, ma piuttosto le ronzavano tra i capelli come per implorarla d’andar via.”… “Non passa luna che la Brunese non bruci malefici in un calderone invocando il male – il Signore ci liberi. Dal calderone ho visto uscire nuvole di sangue e salire al cielo, e la masciara con le braccia alzate imprecare.”

“E’ sciara, fa sacrifici umani e vende le anime al maligno!” conclusero gli inquisitori, e ritennero le prove raccolte sufficienti per richiederne la carcerazione. L’avrebbero poi interrogata – e torturata – fino ad ottenere la confessione da inviare al Tribunale dei Malefici, per far approvare la condanna al rogo.

L’impresa però non era semplice: nessuno s’avventurava più nelle paludi, regno incontrastato della malaria, e della Brunese – ora che sul suo conto si udivano strani voci.

Ma non passò tempo e la Brunese si consegnò spontaneamente agli inquisitori, declinando e respingendo ogni accusa a suo carico.

“Sono forse stregoni i Magi d’Oriente che adorarono il nostro Salvatore? Non sono strega più di loro!” – ella disse – “Zoroastro [1] è il mio profeta, depositario della scienza del tempo, studioso d’erbe e degli astri, che ci ha spiegato che la natura ci insegna per induzione che ci sono démoni incorporei, e che i germi del male che si trovano nella materia volgono, se bene guidati, al bene e alla comune utilità. Il fuoco, sempre agitato e saltellante nell’atmosfera, può prendere una configurazione simile a quella dei corpi ed è chiamato, questo fuoco, luce sovrabbondante che c’irradia e ci avvolge, Si veste di fiamma, si rappresenta nudo come l’amore, armandolo di frecce, ammonendo le anime e trascinandole sempre lontane dalle sacre fatiche. I cani della terra escono allora da questi limbi dove finisce la materia, e mostrano agli sguardi dei mortali apparenze di corpi sempre ingannevoli.” Così si difese la Brunese e aggiunse: “Io pratico la Magheia della grande Medea custode del Sacro Vello. Non provengo dalla Tessaglia, e non sono figlia della terra; sono figlia della Pioggia e del Vento, cui chiedevo aiuto per purificare queste terre da ogni male. Non il vostro fuoco mi potrà bruciare: mia madre la Pioggia spegnerà il fuoco. Mio padre il Vento mi porterà tra le nubi del cielo donde venni. E voi siate maledetti. Vi perseguitino peste e malaria, nessuno veda la dolce terra di mele ca dugnu[2]. Solo il figlio che seguirà lo sciame delle mie api, conoscerà la terra te lu mele e lu cutugnu[3].”

Con questa strana profezia la Brunese si allontanò dagli Inquisitori e mai si seppe più nulla di lei.

La profezia non tardò ad avverarsi: nel villaggio di Roca Nuova si verificarono tantissime morti e causa della malaria, e molti preferirono spingersi nell’entroterra per cercare luoghi più salubri.

Passò del tempo e il figlio di un massaro, avventuratosi nella boscaglia per inseguire uno sciame di api selvatiche, ri ritrovò in una verdeggiante e fertile pianura, ricca di macchia mediterranea e di erbe aromatiche da nessun occhio umano viste prima. Le api avevano nidificato nel cavo di un albero di melacotogne, il ragazzo s’accostò con prudenza al favo di miele notando che le api non attaccavano, ma sembravano anzi invitarlo a gustare il dolce nettare. Non appena intinse le dita, gli parve udire un canto di donna:

Mele dugnu allu figliu te lu figliu.
Mele dugnu a ci se fice gigliu![4]

Il ragazzo tornò dai genitori per condurli nella pianura del miele. Là sorse il primo insediamento rurale e poi ben presto un fiorente villaggio, cui diede nome Melendugno, in ricordo del canto udito.

NOTE
[1] forma greca di Zarathustra, profeta persiano, vissuto fra il VII e il VI secolo avanti Cristo.
[2] Del miele che io dono.
[3] Del miele e del cotogno.
[4] Miele dono al figlio del figlio. Miele dono a chi si fece giglio.

E’ indispensabile avere l’automobile?

No, se non si vuole girovagare per il Salento. L’edicola, i negozi, la farmacia, il bancomat più vicini sono a san Foca, piccolo villaggio di pescatori distante un chilometro da Le Sciare – tragitto facilmente percorribile a piedi. E anche al mare si arriva con agio a piedi.

Poi se la spesa è pesante… Ogni giorno qualcuna di noi va a fare commissioni e spese a Melendugno, e può comprare anche quello che occorre alle appiedate.

E se poi si vuole andare a cena a Lecce? Noi ogni tanto possiamo prestare un’automobile, ma non sarebbe sensato confidare soltanto su questa opportunità.

Insomma, se si vuol fare vita di quiete e riposo, sole mare e piscina, passeggiate in pineta, letture – si può benissimo arrivare senza automobile.

Altrimenti è meglio averla, o affittarne una.

In quale stagione si può soggiornare?

La Masseria è aperta tutto l’anno. In inverno la piscina è riscaldata a 37-38 gradi, e così ovviamente le camere.

Ogni stagione ha colori, profumi, fioriture, scenari bellissimi.

Se è vero che l’estate è la stagione preferita dalle italiane e dagli italiani per far vacanza, è anche vero che visitare in agosto Gallipoli anche per vedere da lì il tramonto, o Lecce per ammirarne gli splendori barocchi o mangiare in una trattoria di cucina salentina, o Otranto con il Mosaico della vita della Cattedrale – be’ è un’impresa da portare a termine in un traffico insolito per le strade salentine, nella ressa di turiste/i e viaggiatore/i.

Lo stesso itinerario, da settembre a giugno, è tutta un’altra storia. Fidatevi.

Quanto costa?

Vedere alla pagina Foresteria per tutte le informazioni.  

Quanto è lontano il mare?

Da Le Sciare un sottopasso – ribattezzato il sottospasso da un’amica specialista di giochi di parole – attraversa la strada provinciale e porta al mare. Dalla masseria alla spiaggia due o tre minuti in tutto: il viale verso il cancello d’ingresso, il sottopasso protetto da cancelletti, una fiorita zona di macchia mediterranea, e si è in spiaggia. Davvero sotto casa, due spiaggette sempre deserte o poco frequentate. Poi com’è ovvio ci si può spostare sul litorale camminando verso alcuni piccoli ma gradevoli stabilimenti balneari. O ci si può spostare in automobile e raggiungere le scogliere verso il Capo, o la sabbia fine dello Ionio.

Si possono comperare prodotti della Masseria?

Sì. Formaggi e ricotte di capra, marmellate, cotognate, gelatine. I prodotti di stagione dell’orto e del frutteto. Il vino Le Sciare, bianco e rosso, della cantina Due Palme. E altro…

Si possono portare animali?

Sì ma con attenzione. A Le Sciare vivono e crescono alcune cane pastore tedesche, governate dalla loro capostipite Clear. Sono di buon carattere, socievoli, amorevoli e addirittura espansive con le umane e gli umani, ma sopportano con malagrazia le intromissioni di animali estranei nel loro territorio. uindi è richiesta una grande attenzione per evitare spicevoli inconvenienti.

Le gatte e i gatti dovranno fare vita mooooooooolto casalinga.

Si possono portare uomini?

Solo se riceveranno uno specifico invito delle donne residenti a Le Sciare...

Si può andare a cavallo?

Sì ma firmando una liberatoria che tolga ogni responsabilità alla struttura, non abbiamo una assicurazione che copra incidenti a cavallo. Nelle scuderie ci sono attacchi, selle, finimenti, e chi sa cavalcare si potrà divertire in tutte le stagioni.

Si può anche fare un giro in carozza tra ulivi e muretti a secco sul calesse d’epoca, guidato dall’esperto e garbato Marco, dove c’è posto per tre – due sotto la capotta e una a cassetta.

Si può cucinare e mangiare?

Sì. L’appartamento Le Palme, il Bosco, l’Arca, la Barca e la Casetta e hanno una propria cucina.

La Foresteria ha una spaziosa cucina, con 12 posti a tavola, a disposizione comune delle stanze Aria, Mantagnata, Brunese, Stelle, Mangiatoia. Ognuna può fare la spesa per sé o concordando con altre, e consumare in casa la prima colazione, il pranzo, le merende e gli spuntini. Abbiamo verificato che il buon senso e l’intelligenza rendono facile e anzi piacevole la gestione della cucina comune. In caso di problemi, la nostra regola si fonda sulla pratica della relazione e sulla mediazione più alta possibile delle disarmonie, non su criteri di maggioranza o di democrazia.

E’ importante mangiare tutte insieme al ristorante, la sera, dove viene offerto un ricco buffet così da condividerci e confrontarci e relazionarci.

Si può dare una mano?

Oh sì! Ma certo! C’è lavoro da fare nell’orto, nel frutteto, nella pineta; c’è lavoro da fare con il pollaio, le oche, le capre, i cavalli; ci sono da preparare conserve, cotognate, marmellate; c’è da tagliare l’erba, curare i fiori e le piante… E noi siamo più che felici quando un’ospite si diverte a partecipare e ci offre così un aiuto molto prezioso.

Si può giocare a golf?

La buca da golf è un par tre. Giovanna – che è stata campiona europea Juniores e poi campiona italiana di doppio Seniores – è a disposizione per eventuali suggerimenti.

Chi non ha pratica del gioco ma vuole provare, si può far accompagnare da lei o da una esperta.

Chi ha pratica del gioco può muoversi come crede.

A pochi chilometri dalle Sciare, sulla provinciale 366 in direzione Lecce, c’è poi il campo golf dell’Acaya (18 buche, par 71): un campo tecnico, sempre ventoso, simile a un link scozzese – sia detto per le appassionate.

Si può riservare tutta la Foresteria per incontri o riunioni?

Sì. Anzi, questa è una possibilità che a noi piace molto. I posti letto nelle camere sono 33, e nelle roulotte e barche sono circa 30 e sia nella stagione estiva sia in quella invernale ci sono spazi per incontri.

Occorrerà com’è ovvio concordare in anticipo le date.